''...da un'inquietudine leggera...'' Da ragazzi, ancora in pantaloncini corti, spesso ci stendevamo a pancia in su in mezzo ai campi gialloverdi di erba spagna e ci inebriavamo di cieli cangianti e di nuvole mobili, cercando di dare i nomi più appropriati alle forme o i più audaci alle fantasie di enormi masse in movimento. Si respirava celeste libertà, con, bene amalgamati, i profumi-aromi dell'amaro della terra gravida di fertili umori e quello dolciastro dell'erba, in alcune zone appena tagliata e ricca di odori e sapori. Non di rado la gara sulle visioni acquietava così tanto la nostra vivace irruenza di adolescenti che ci addormentavamo per qualche minuto a sognare. I paesaggi di Daniela Turetta mi restituiscono, almeno in parte, quelle sensazioni di autentica immersione panica, di totale, tenero, vellutato abbraccio dei colori, delle brezze avvolgenti della natura. Ed una brezza interna smuoveva emozioni, ricordi, pensieri così come quella esterna modellava le nubi. Credo sia questo che ha affascinato Daniela Turetta e che ci affascina anche della sua pittura: quella partitura leggera e levigata dei quadri, prolungata, contemplativa manipolazione del colore come fosse dolore, fino ad eliminare quasi ogni traccia della stesura materica, del gesto di deposito cromatico e ridurlo ad atmosfera pura, tersa, ricca di modulazioni e di fasce luminose, di armonie, di movimenti, di larghi squarci, di trafitture di luce, molto spesso alle prime luci dell'alba o delle penultime luci, prima del tramonto, quando i cieli si caricano di magie premonitrici, di attese fervide e romantiche, degli slanci delle azioni del giorno e degli incanti percettivi e dei velati sogni notturni. Voglio sottolineare che il 'paesaggio' di Daniela Turetta non è mai semplicemente una 'veduta': il suo sguardo si carica e si scioglie nell'inquietudine leggera di una stesura meticolosa, prolungata di emozioni intime e segrete, che l'atto del dipingere disvela lentamente, impagina nella prospettiva e nella luce, facendo corrispondere e continuare spazio fisico e spazio psichico, la natura adottata come specchio dell'anima, il sentimento dello spazio come respiro del cuore e della mente che si aprono, si distendono molto di più dello spazio reale e coltivano e rafforzano quell'armonioso senso di appartenenza al panorama veneto, alla pianura, ai suoi cieli azzurrini o rosati, che indicano il fluire dei venti, sparpagliano le nuvolaglie, ma anche dei pensieri, delle immagini e metafore mentali, dei sentimenti. La tecnica e lo stile di Daniela Turetta si adeguano felicemente a questa ricerca di materia lieve che fiorisce in delicate visioni orizzontali, tenute lunghe per aumentare il tempo di esecuzione, la durata della percezione, di sedimentazione interna e di coinvolgente comunicazione all'osservatore. Costui subito si sente catturato a percorrere le articolazioni armoniose dello spazio più che la sintesi iconica: l'orizzonte basso e lungo, gli alberi in ombra, le case, il prato, le stradine tra l'erba, il cielo alto e largo, segnato da cirri, da cumuli, da sciabolate di nubi che intensamente dialogano con la luce: luce fisica e psichica, 'chimica' anche (nel senso della materia cromatica, ma anche delle diverse combinazioni emotive ed 'umorali' che induce). La luce e i silenzi certamente sono i soggetti principali della pittura di Daniela Turetta: luce come colore e come pittura, luce come conoscenza sensitiva e intellettiva della natura, dell'ambiente e anche di sè nella natura, nelle atmosfere del giorno, della notte, del paesaggio; e luce come partecipazione 'psicologica' più che fisica alla realtà e al suo modularsi interno ed esterno, così che 'l'andar per cieli' è per Daniela Turetta un ritrovare e percorrere i 'pascoli' celesti dell'anima, i luoghi del ristoro delle inquietudini esistenziali, dell'alleggerimento, del volo, degli attraversamenti che riappacificano l'umano con la fatica del quotidiano esistere.
Giorgio Segato, Febbraio 2008
Da molti anni ormai Daniela Turetta è in dialogo con i cieli, e con le nuvole in particolare, con lo spazio affascinante e profondo che sta sopra di noi, turchese,celeste, azzurro, blu, indaco,animato spesso da leggere conformazioni spumeggianti che mutano rapidamente di forma e di colori. Il suo è come un dialogo costante, mentale ed emotivo, sentimentale, tra la staticità del suolo e la mobilità cangiante delle nuvole. L'orizzonte è tenuto basso, così da lasciare campo pieno alle differenti nubi che ora risentono di brezze leggere e si sfilacciano lunghe e trasparenti, come residui di scie di navi celesti, ora si aggregano in cirri, cumuli o strati in verticale, sostenute da una corrente ascensionale più calda. E le loro sembianze mutano, sono in continua evoluzione, modellate da venti diversi: giganteschi cumuli (tra 500 e 12.000 metri) o strati e stratocumuli, filamenti arricciati dai moti d'aria, cirrocumuli (cielo a pecorelle). Da forme allungate, larghe o strette, si passa a forme tondeggianti, rigonfie, a volte enormi, a volte scure e cariche di pioggia, altre volte bianchissime e luminosissime, come montagne innevate, altre volte con fisionomie riconoscibili che ci si diverte a nominare (un volto, una figura, un animale). Daniela Turetta è sempre più affascinata da questa mirabile e variabile ''scrittura del cielo'' o ''scultura del vento'' che, appunto sembra mettersi in colloquio con l'uomo che, a sua volta, da sempre cerca di interpretarne le forme, un tempo come strumenti di divinazione, oggi come segnali meteorologici e soprattutto di identificazione delle masse come cangianti sculture. Ormai sono pochi anche gli anziani, specialmente contadini, che ne conoscono il linguaggio, sussurrato o sibilato dal vento: sanno quando le nubi chiamano pioggia, neve o tempesta improvvisa, burrasca o, nonostante alte nuvolaglie, che ci sarà solo un breve acquazzone, o anche che l'enorme veliero passerà a vele spiegate senza scaricarsi. I giovani cominciano ora a conoscerle, in ritardo, perché finalmente fanno più attenzione alle problematiche ambientali; le più recenti generazioni non vivono più la 'strada', i 'campi', la 'natura' e non dialogano più con le nubi stesi sui prati a dare nomi alle forme, fantasticando sulle loro metamorfosi anche repentine, animandone così la presenza in cielo e collegandole direttamente al suolo e alla presenza , al lavoro e alla vita dell'uomo. Prima di uscire di casa si scrutava attentamente il cielo e ci si interrogava sulla qualità meteorologica della giornata, percependo dalle nuvole, dai colori del cielo, dall'umidità gli effetti psicologici ed umorali. Naturalmente la presenza di nubi tende ad 'abbassare' il cielo, ad appannare - quando sono diffuse - lo splendore del sole e a creare monotoni, plumbei appiattimenti. E lo stato d'animo tende al malinconico e all'inerzia. Ma quando si muovono rapide e si alzano in rigonfi cumuli tiepoleschi all'orizzonte, dominano ed animano tutta la scena e diventano non solo parte integrante del paesaggio, ma acquisiscono forti ripercussioni intime, richiamano intensa partecipazione psicologica , emotiva ed affettiva: e i pensieri si accumulano e corrono con esse ad aprirsi e concentrarsi intorno ad acuti raggi di sole, a teneri baluginii di luna sorgente. Sono movimenti dell'anima che sente e vive il paesaggio come atmosfera interiore perché Daniela Turetta sente, vive ed ama le sue nubi e i suoi cieli come imprescindibile e più vera parte del paesaggio su cui si deve più spesso alzare gli occhi e che lei indugia a ritrarre, lentissimamente e con cura da miniaturista (nonostante le notevoli misure delle opere sempre orizzontali per rendere più agile la percezione di uno spazio che si slarga e ti consente di entrare) e 'tirando' al massimo la materia cromatica, quasi smalto che abbassa la superficie a finestra sul mondo, ora con presenze tranquillanti, ora con inquietanti addensamenti, mai però troppo minacciosi. Diventano parte dell’esperienza quotidiana, parte importante del rapporto e di quel dialogo con la natura a cui Aristofane seppe dare voce nella sua bella commedia Le Nuvole (423 a.C.), in cui le nubi fanno da coro alla commedia che mette alla berlina Socrate e tutti i 'sofisti', i demagoghi e l'arte, un tempo maestra di virtù e poi corruttrice delle menti e dei costumi. I personaggi sono di una comicità pulcinellesca, è stato scritto, ma le nuvole offrono pittoreschi e squisiti brani lirici di shelleyana modernità. E come non pensare all'Infinito di Leopardi se si guarda al basso orizzonte delle opere di Turetta come alla ''siepe che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude'', ma al di là da quella si aprono interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete, non semplicemente nell'immaginario del poeta, ma nella realtà visiva e nel campo psichico di Daniela Turetta che egregiamente interpreta l'emozione tutta interiore di Leopardi. Al di sopra e al di là della breve fascia con campi verdi, arati, innevati, con i colli Euganei, case coloniche, alberi, vive un cielo ricco di movimenti e di colori, di delicate nuances di grigi perlacei e più scuri, di gialli e rossi spampanati al tramonto, di pallidi rosati all'alba, di incendiati nuvoloni incombenti ma ancora pervasi di luminosità solare. E sotto, o sopra, o attraverso le nuvole, Daniela Turetta spia il mutare di tinte del cielo. La tavolozza si è ulteriormente arricchita per questa mostra nelle prestigiose scuderie municipali: il dialogo è più complesso e variato per stagioni ed ore del giorno, perde di realismo fotografico, incrementa il versante soggettivo e sentimentale, e lo sguardo cristallino ora svela più emozioni, più gioia esistenziale, più partecipazione alla vita nel suo più vasto contesto naturale.
Giorgio Segato, Ottobre 2008
I paesaggi campestri e rurali di Daniela Turetta comunicano subito che non si tratta di vedutismo paesistico di matrice impressionista o neo impressionista, e neppure di evocazioni nostalgiche di qualcosa di perduto, o di smarrito con lo smarrimento dei sensi. C'è qualcosa di romantico, e giustamente lo segnalava Maria Luisa Trevisan, ma come risentimento alla lontana, non dominante. Lo sguardo prensile dell'artista non indugia sulle vibrazioni e modulazioni dell'aria, delle foglie, delle erbe, dell'acqua, ma cerca e vuole rappresentare il paesaggio nella sua piena densità atmosferica, nella sua persistenza più che nella sua mobilità e fugacità. Perché nel paesaggio Daniela Turetta mira ad esprimere e a comporre il complesso mosaico delle sue percezioni esterne ed interne, della sua sensorialità e della sua identità, mettendo in dialogo diretto corpo e natura: pittura, corpo e natura. La pennellata lunga, ripetuta, insistita, e consistente nel fissare i trapassi di luce e dell'emozione, determina una consonanza fra i modi della trasposizione e il sentimento che ha ispirato la veduta e, insieme allo sviluppo orizzontale, provoca una prolungata visione in cui hanno modo e tempo di confondersi vero geografico/atmosferico e vero psicologico/affettivo, raggiungendo particolarissime modulazioni, quasi modellazioni d'impasto cromatico da cui sembra effondersi la luce. Le opere non sono sintatticamente meno rigorose di prima, ma si avverte una tenerezza nuova, una vena commossa ed inquieta dentro il nitore formale del paesaggio severo e pressoché incontaminato. La visione di pacata e solenne bellezza, la cadenza lenta e controllata, meditatissima, dell'impianto metrico orizzontale sotto la vastità azzurra del cielo abitato da leggere nuvole, guidano a una condizione di serena contemplazione e disponibilità creativa, dove quanto più la veduta si fa silente e misteriosa, tanto più essa sembra suggerire uno struggente sentimento di partecipazione ai ritmi semplici e al tempo stesso grandiosi della natura naturans. Pochissimi elementi concorrono in questo suo fare pittura: la tecnica dell'olio su tavola, esercitata con cura meticolosa e preziosissima attenzione ai rapporti cromatici, i formati (generalmente molto minuti, anche se poi vengono ingranditi nelle riprese tematiche in studio, fino a basi di 100 cm, non di più, almeno solitamente) e infine l'orizzontalità. Il formato ridotto significa soprattutto il desiderio dell'artista di attento studio analitico, cioè di oggettivazione dei dati dello sguardo, che analizza e ricompone la veduta nelle sue masse essenziali e nei suoi colori, senza esserne direttamente coinvolto, ma ponendosi in una condizione di ascolto, sospesa, silenziosa, e di sollecitazione a far aggallare le emozioni intime che il paesaggio nella sua naturalezza suscita e nutre. E' dunque necessario uno sguardo lungo e ben mirato, guidato da una sensibilità attenta più alle atmosfere corpose che alle minuziose descrizioni lineari, e al gioco del coniugarsi e distinguersi dei colori nello sguardo lontanante piuttosto che il loro svelarsi nello sguardo ravvicinato: nel guardare di lontano Daniela Turetta apre la veduta a spazi insondati ma percepibili, piuttosto che chiuderla in una limitata porzione immediatamente sensibile. Intendo dire che i suoi paesaggi cercano e coltivano orizzontalità e profondità alludendo sempre a una continuità, a uno slargarsi dell'orizzonte, all'allungarsi del campo, a un alzarsi dei cieli. Le opere più recenti, tenute appunto sotto il titolo ''Emozioni dal cielo'' tendono ad abbassare e a sviluppare l'orizzonte, lasciando cieli sempre più aperti e più alti, ma mai incombenti sul paesaggio e, piuttosto, parte aerea di sublimazione del paesaggio stesso, di aspirazione, di 'sollievo' della sua terrestrità come materialità e pesantezza dell'essere. Non ci sono figure nei quadri di Daniela Turetta, ma case e alberi, che da sempre indicano l'abitare e la figura dell'uomo, di una vita raccolta, protetta, che cresce in armonia (ed è questa la visione utopica di Daniela Turetta pittrice) con i dati naturali, con l'ambiente, senza sopraffazioni, con una continua meraviglia per ciò che ci è dato di vedere attorno a noi, e di sentire dentro di noi. Così, si scopre che quei suoi luminosi controluce, delicatamente variegati, che rendono palpabile l'aria nel gioco tonale di verdi in contrappunto con i cieli cilestrini, hanno un alto valore simbolico sia nella costruzione (quel porsi dell'artista al di qua della fonte luminosa contrastata da un casolare, da alberi, o dal crinale dei colli, e mai in immersione diretta, per cogliere frontalmente, o di lato gli effetti di contaminazioni cromatiche dentro le ombre amalgamate degli alberi, dei muri delle case, delle erbe dei vasti campi), sia nel 'senso' (significato) che il soggetto prediletto, la veduta, assume come spazio reale, ma anche come spazio del sogno e del desiderio, spazio utopico di una natura che non vuole essere contagiata dagli artifici che così tanto hanno ridotto, ristretto, la libertà dello sguardo. Forse per questo Daniela Turetta, scelto lo scorcio di un panorama accogliente, alza gli occhi a prendere più cielo che terra, lasciandosi catturare da uno spazio ancora (per quanto?) libero dalle macchinazioni dell'uomo, ancora magico di modulazioni luminose naturali, di scritture di nuvole e di sculture di cirri-cumuli. Per ridare ossigeno alla terra, ai suoi amati scorci campestri, Daniela Turetta sente il bisogno di dilatare lo spazio alto del cielo, lo spazio del sogno, della leggerezza, della trasparenza e dell'aria che instancabilmente mormora, carezza, gioca, soffia, agita, e della luce che si modula in pieghe ed ombre che dialogano con le sorprese, le meraviglie, le inquietudini dell'anima dell'uomo.
Giorgio Segato, Giugno 2004
"I quadri di Daniela Turetta sembrano tutti declinare certi particolarissimi paesaggi, con il cielo che schiaccia ogni cosa contro la linea dell'orizzonte. Paesaggi senza figure, solitari, colti nel momento in cui la luce è ancora drammaticamente incerta fra l'abbaglio e la tenebra. E tutto sembra piegato alle ragioni irresistibili di una orizzontalità estrema, tanto da non permettere neppure il sovrapporsi di piani secondo le tradizionali regole prospettiche. Il paesaggio è quasi bidimensionale e affida all'espansione delle nuvole il movimento e la plasticità. Così, non ci è ben chiaro se i sentimenti dell'artista si riflettano, appunto, in quelle nuvole in perenne e minaccioso movimento oppure nel paesaggio sottostante che ne subisce gli impeti e i capricci. Certo è che il disporsi del cielo e dei campi sono una sorta di specchio in cui l'anima è pronta a perdersi. Quelli di Daniela Turetta sono, per più di un verso, paesaggi dell'attesa. Attesa della luce, che tarda a definirsi e risolversi. Attesa di un evento che spezzi l'incantesimo oppure, al contrario, attesa di un riconoscimento. Spettacoli naturali come respiri profondi. …Daniela Turetta ci dice, sì, che queste immagini corrispondono a momenti magici di sintonia, a piccole epifanie che si perpetuano nella memoria, ma ci dice anche che al fondo di tutto c'è una inesausta ricerca di luce."
Sergio Garbato, Settembre 2002
Chi ha il coraggio, oggi, di volgere gli occhi al Cosmo? La mente vien colta dalle vertigini; e il cuore s'impaurisce. Eppure Daniela Turetta riesce a portarci, con mano gentile, verso una visione estatica della natura, in cui prevale l'immensità del cielo: quindi una ricerca sottile di infinito. C'è, in questi suoi paesaggi spesso oblunghi, anche in quelli di piccole dimensioni, un anelito romantico, simile a quello della cultura tedesca dell'Ottocento (Friedrich). Persino le nuvole assumono aspetti simbolici: comunicano un sentimento, uno stato d'animo. Ma quel che sorprende nella pittrice atestina è la qualità nella resa dei controluce, con certe sfrangiature di tono e taluni finissimi cangiantismi di colore. Sono paesaggi grandangolari, oscuri e pur luminosi, pacati e pur ricchi di pathos, in cui l'essenza del timbro atmosferico cambia continuamente, come i nostri stessi umori. Tutto, in sostanza, è impregnato d'una sensibilità sottesa al limite estremo della percezione.
Paolo Rizzi, dicembre 2000